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L’importanza di saper perdere

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio. (Samuel Beckett)   Lo scriveva Samuel Beckett e aveva ragione. Di fallimento se ne parla troppo poco. Spaventa, disarma noi stessi o chi conosciamo stia passando un periodo difficile. Per questo parliamo dell’importanza di saper perdere, un argomento poco accettato, soprattutto

Contenuti di questo post:

    Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.

    (Samuel Beckett)

     

    Lo scriveva Samuel Beckett e aveva ragione. Di fallimento se ne parla troppo poco. Spaventa, disarma noi stessi o chi conosciamo stia passando un periodo difficile.

    Per questo parliamo dell’importanza di saper perdere, un argomento poco accettato, soprattutto in una società performante come la nostra, dove la paura di non farcela e riconoscere i propri errori induce spesso paura ed evitamenti.
    Alcuni vivono il normale errore come una macchia indelebile, quando altro non è che un umano passaggio di tutti; e più non lo accettano, più sono esposti alla possibilità di sbagliare, perché quanto più l’ansia aumenta, meno riescono a controllare le proprie emozioni e ampliano anche possibili difficoltà nel prestare attenzione e memorizzare dati importanti.

    L’importanza del gioco

    La sensazione di fallimento è uno stato d’animo che può assalire chiunque. Ci sono persone che, pur di non sperimentarlo, evitano di confrontarsi con alcune situazioni o delegano agli altri. C’è chi si giustifica dando la colpa alla società, alle circostanze, se non alla sfortuna o al destino (si dice che queste persone abbiano uno stile di attribuzione – o locus of control – esterno).
    Si cerca di non entrare in competizione, si scappa dalla possibilità di critica o dalle aspettative che le altre persone nutrono nei nostri confronti. Insomma si rinnega una delle più importanti lezioni di vita: a volte si fallisce, si sbaglia e non si raggiunge un obiettivo, ma si può imparare dagli errori e si cresce anche grazie alle esperienze negative. Forse è uno dei più importanti insegnamenti che i genitori dovrebbero trasmettere ai propri figli, per far capire loro che anche un fallimento può essere utile e che nella vita non si può “vincere sempre e giocare facile”.

    A Modena, per esempio, ha debuttato per la prima volta la “Scuola Italiana di Fallimento”. Sembra un’idea strana, ma in realtà si propone un fine serio: insegnare ad accettare le cadute ed imparare ad alzarsi. Le lezioni si basano su un modulo esperienziale che comprende tecniche del teatro d’improvvisazione, del gioco, del mentoring e del coaching. Non sono lezioni frontali, ma si lavora sul ciclo dell’errore a partire dalla sua percezione, cioè da quello che ognuno pensa del proprio errore, per poi passare a come lo vivono gli altri, cosa che si propone soprattutto nei colloqui di lavoro. I professori sono una decina fra attori di teatro d’improvvisazione, docenti di game design del Politecnico di Milano, un neuroscienziato dell’Università di Udine, una psicologa e due esperti di giochi di ruolo. E’ prediletta una modalità ludica, perché le neuroscienze hanno dimostrato che le persone apprendono o ricordano circa il 90% di quello che vivono attraverso il gioco rispetto al 10% che viene assimilato con la lettura. L’impatto, così, è molto più forte rispetto a metodi spesso empirici e affidati alla buona volontà, che, fra l’altro, in casi nei casi di fallimento, è proprio ciò che viene a mancare, lasciando l’individuo in uno stato di abulia tanto più pericolosa quanto più prolungata. Questo ovviamente non concerne solo il campo sportivo, ma pervade ogni ambito: da quello lavorativo a quello sociale, dalla famiglia alle attività del tempo libero.

    Accettare le difficoltà e da lì ripartire

    Per esempio, ci sono i giovani che cercano un lavoro, ma devono effettuare molteplici colloqui di assunzione che spesso lasciano l’amaro in bocca della sconfitta, anche perché in questi casi si fatica ad individuare correttamente le ragioni di una bocciatura. Questo induce frustrazione e ansia. In questi casi occorrono tecniche di lavoro sui pensieri e comportamentali. Si svolgono simulate e pratiche di coaching e mentoring,
    La sciatrice Sofia Goggia, 24 enne medaglia di bonzo nel gigante, ha salvato la spedizione azzurra ai Mondiali di sci alpino a St. Moritz. Ma, prima del podio, aveva fallito una vittoria annunciata e molto attesa in discesa libera. Da questa delusione si è risollevata, centrando successivamente la medaglia. E non è l’unica. La storia sportiva e non è pervasa da persone che non si sono abbattute, nonostante gli insuccessi. Sofia dichiara: “Quando perdi provi un dolore così forte che da quel male ti vuoi allontanare, ma se inizi ad accettarlo e ad impegnarti per imparare dal fallimento, ne uscirai vincitrice”. Con la Terapia Cognitivo Comportamentale è possibile riconoscere i pensieri associati al fallimento e orientare le proprie azioni in vista di un obiettivo. In particolare, con la tecniche della terza generazione della terapia cognitivo-comportamentale (ad esempio l’ ACT – Acceptance and Commitment Therapy) è possibile individuare i propri valori ed intraprendere azioni diretta a migliorare il proprio benessere. Questa moderna terapia comportamentale utilizza interventi di Accettazione e Mindfulness, combinati con strategie di impegno e di cambiamento comportamentale finalizzate ad aiutare i clienti a costruire esistenze più vitali, propositive e positive.

    L’evitamento della sofferenza, quindi, porta ancora di più a sperimentarla. A tal proposito la “storia delle due frecce della religione Buddhista” ci fa riflettere sul meccanismo di accettazione. Secondo il Buddha infatti “la vita è sofferenza”. Quando certe cose accadono, è come se fossimo colpiti da una freccia. Questa ci fa immancabilmente soffrire. Alcune persone però, oltre ad essere colpiti da questa freccia, scelgono inconsapevolmente di farsi colpire con una seconda e aggiungono alla prima sofferenza fisica, una seconda sofferenza mentale. Lo facciamo tutti quando, oltre a dolerci di ciò che ci è accaduto di negativo (reazione normale perché implica che quella determinata cosa è importante per noi), ci lamentiamo o arrabbiamo per ciò che è successo. In questo modo è come se aggiungessimo alla prima sofferenza, una seconda. Non è facile accettare i fallimenti, ma lamentarci, affliggerci o arrabbiarci per più mesi per una cosa successa, non ci aiuterà ad affrontarla.

    E allora forse dobbiamo ammettere che ci manca un “allenamento a tollerare i fallimenti” e che “l’unico vero fallimento sta, in realtà, nel permettere alla sconfitta di avere la meglio su di noi”(Anthony Clifford Grayling).

    Fonte: Notizia in parte presa da La stampa di venerdì 9 giugno

     

     

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