Ingannare il nostro cervello non sempre, e non necessariamente, rappresenta qualcosa di negativo. Sfruttando la realtà virtuale è possibile trattare i disturbi d’ ansia e non solo.
Da un certo punto di vista, la necessità di ingannare se stessi è scritta nelle nostre cellule.
Il cervello lo fa regolarmente, ogni giorno e, soprattutto, ogni notte. Lo facciamo quando vogliamo convincerci che quella persona, e soltanto lei, è la più adatta per starci accanto e costruire la più bella e intensa storia della nostra vita. Per poi scoprire, magari dopo non molto tempo, che non era esattamente così. Lo fa costantemente, in modo naturale, il nostro cervello ogni volta che sogniamo. Anche durante il giorno.
Dai tracciati cerebrali “dinamici” (l’equivalente della registrazione holter dell’attività cardiovascolare) risultano dei periodi “onirosimili”: l’assunto “sognare ad occhi aperti” ha dunque una sua oggettività e un riscontro di tipo strumentale.
Programmi per computer, sensori, caschi, occhiali, joystick, periferiche sempre più sofisticate, costituiscono l’armamentario per consentire al nostro corpo e, soprattutto, al nostro cervello di sperimentare una realtà creata artificialmente, come se fosse reale.
Varcare la soglia è come entrare in un videogame di ultima generazione. Dove non bisogna sconfiggere mostri, ma le azioni da compiere sono quelle che scandiscono la vita quotidiana: cucinare un piatto di pasta, percorrere il tragitto dal lavoro a casa, mettere una bottiglia nel frigorifero.
Benvenuti in un ambiente di realtà virtuale per la cybermedicina, un mondo che sfrutta l’high tech per curare alcune malattie e per rallentare lo sviluppo di altre. I “cave” – come li chiamano nel gergo anglosassone – sono stanze con schermi alle pareti e sul pavimento per proiettare le immagini 3D. In Italia ne esistono solo due: si trovano all’Istituto Auxologico di Milano e gli specialisti hanno cominciato a utilizzarle per pazienti in riabilitazione dopo un ictus o un trauma cranico. E per quelli con un principio di problemi cognitivi.
“Nel primo caso la persona, immersa in questo mondo virtuale, è costretta a ripetere i gesti banali che farebbe ogni giorno e che aiutano più di una fisioterapia, fatta di movimenti standard. Nel secondo, invece, sfruttiamo questa tecnica per mantenere il cervello allenato ed evitare, almeno in una prima fase, gli errori: le perdite di memoria e i problemi di orientamento”.
Chi parla è Giuseppe Riva, il responsabile del team sulla “cybertherapy” dell’Auxologico e docente dell’Università Cattolica di Milano, dove insegna alla facoltà di Psicologia..
Il centro lombardo ha iniziato ad usare la realtà virtuale nella cura di patologie legate all’ansia.
A partire dalle fobie. “Prendiamo la paura degli spazi chiusi – racconta Riva -. Al paziente viene chiesto di immedesimarsi: di pensare, per esempio, di trovarsi in un ascensore, mentre il medico cerca di aiutarlo a superare l‘ostacolo. Noi quell’ascensore l’abbiamo disegnato virtualmente. Quando il paziente è all’inizio della terapia, ha i vetri. Quando la persona ha già fatto qualche progresso, l’ascensore è chiuso e ospita altre persone. Lo stimolo che creiamo è graduato a seconda delle esigenze. E il vantaggio è doppio: abbiamo risultati migliori e teniamo sotto controllo i progressi dell’individuo. Senza dimenticare che la cura è coinvolgente”.
Lo stesso si può dire a proposito della “cybercura” dei disturbi alimentari. Può essere una questione di stress o la conseguenza di un leggero stato depressivo. “In queste situazioni – prosegue – cerchiamo di individuare con il paziente una serie di immagini calmanti, come una baita in un bosco o una spiaggia. Le ricostruiamo in virtual reality e con termo-telecamere che misurano una serie di parametri vitali, dalla temperatura corporea ai battiti cardiaci, osserviamo le reazioni del soggetto e moduliamo le immagini”.
Ora l’Auxologico si è impegnato per allargare la “cyberterapia” alla riabilitazione motoria e cognitiva. “Non a caso l’American Heart Stroke Association ha inserito nelle linee-guida per il trattamento dei pazienti colpiti da ictus la realtà virtuale. Ma questo strumento funziona anche per migliorare l’orientamento spaziale in chi è affetto da demenza senile o Alzheimer”, sottolinea Marco Stramba-Badiale, direttore dell’Unità operativa di Medicina riabilitativa dell’Auxologico che, assieme a Riva, ha sviluppato i due “cave”.
Alla “cyberterapia” è sempre associata una terapia tradizionale, di tipo Cognitivo Comportamentale. “Sono complementari e l’ una non esclude l’ altra”, commenta Stramba-Badiale. Lui e Riva hanno anche messo a punto una app. Si chiama “Positive Island” e aiuta a continuare il trattamento virtuale contro lo stress a casa. La “cybermedicina” è anche telemedicina.
Fonte: parzialmente rivesto da La stampa