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Empatia: Come riconoscere una persona empatica

empatia

Dal momento che gli esseri umani sono programmati per rispondere con più forza alle cose cattive che buone, non sorprende che la nostra capacità di “connettersi” viene spesso messa alla prova quando un intimo o un caro amico, un collega o un conoscente, o anche un perfetto sconosciuto ci confida che sta soffrendo sulla scia

Contenuti di questo post:

    Dal momento che gli esseri umani sono programmati per rispondere con più forza alle cose cattive che buone, non sorprende che la nostra capacità di “connettersi” viene spesso messa alla prova quando un intimo o un caro amico, un collega o un conoscente, o anche un perfetto sconosciuto ci confida che sta soffrendo sulla scia di un evento devastante.

    Generalmente pochi di noi sono in grado di gestire con vera grazia sempre questi momenti, anche se ci sentiamo in sintonia con la condizione della persona.

    Il nostro disagio a volte ci porta in confusione: Che cosa esattamente dobbiamo dire? Dovremmo solo mormorare ” mi dispiace” e lasciare le cose come stanno o dobbiamo trovare parole di incoraggiamento e tirar su la persona? Che cosa è esattamente la cosa giusta da fare?
    Un vero empatico conosce le risposte a queste domande.

    persona empatica

    Significato Empatia

    L’empatia è l’intenzione di comprendere sentimenti ed emozioni, cercando di sperimentare oggettivamente e razionalmente ciò che prova un altro individuo.
    La parola empatia è di origine greca “empátheia” che significa “eccitato”. L’empatia fa sì che le persone si aiutino a vicenda. È strettamente correlato all’altruismo – amore e preoccupazione per gli altri – e alla capacità di aiutare.

    Empatia e Compassione

    Compassione ed empatia non sono sinonimi, anche se la gente spesso li usano in modo intercambiabile.

    Quando si è empatici e in sintonia con qualcuno, ritieni che quella persona troverà se stessa in ciò che tu capirai.
    Questo è un processo mentale che richiede una caratterizzazione delle emozioni e una loro attribuzione agli eventi – “la moglie di Joe lo ha lasciato e lui sta male”- e non a caso, una capacità che sembra non essere innata, ma si acquisisce con l’età e con la maturità.

    La compassione non richiede nessuna conoscenza delle emozioni o relazione, e dipende in gran parte dalla chiarezza della rappresentazione mentale ed è per questo che gli spot televisivi sull’adozione dei cani/gatti toccano così fortemente le corde del nostro cuore.
    Si può sentire compassione per qualcuno la cui esperienza è del tutto estranea a voi e che non si può cominciare a immaginare, ma in questo modo è improbabile che i vostri occhi si riempino di lacrime.

    Tania Singer ha sostenuto che l’empatia e la compassione devono essere considerati come processi separati, in parte perché ognuno dipende da diversi neuroni e parti del cervello.

    L’empatia è qualcos’altro. I neonati sono “contagiosi” quando piangono nelle loro culle e e l’empatia può essere dimostrata dai bambini che non hanno ancora la capacità mentale per provare compassione.
    Quando si è empatici, ci si “sente” con la persona nel senso letterale della parola.
    L’empatia riduce la distanza tra gli individui mentre, paradossalmente, la compassione spesso può aumentarla.

    Uno studio condotto con la risonanza magnetica da Philip Jackson e altri colleghi hanno dimostrato che le stesse parti del cervello erano impegnate e attive sia quando la gente sentiva il dolore fisico e sia quando ai partecipanti sono state mostrate fotografie di esperienze dolorose che coinvolgono fisicamente mani e piedi (un piede incastrato sotto una porta, ecc ).

    Intendiamoci, queste fotografie non hanno incluso i volti delle persone, quindi non era una questione di rispondere alle espressioni facciali. Altri studi, compresi quelli condotti da Naomi Eisenberger e Ethan Kross, hanno dimostrato anche che il dolore fisico ed emotivo non sono, infatti, distinti e utilizzano gli stessi circuiti neurali.
    Quanti di voi si sono trovati di fronte ad un amico o parente che stava attraversano un periodo difficile della vita (per esempio un tumore, un lutto…) e avete provato imbarazzo nel parlare della vostra vita e ad un tratto avete percepito i vostri problemi come insignificanti e banali? Quanti di voi ha pensato che il vostro amico o parente in quel momento non era in grado di ascoltarvi? Quanto di più sbagliato. Se di fronte avete una persona davvero empatica… non fatelo!

    Anche la persona più triste può essere capace di capire e sentire i vostri sentimenti. E’ proprio questo capacità che rende una persona empatica. Si ritiene che i primi percorsi neurali che diventeranno i condotti per l’empatia sono stabiliti nella prima infanzia quando i bambini imparano a leggere le espressioni di chi è loro vicino e, attraverso l’empatia hanno risposta ai loro bisogni emotivi.

    Queste prime esperienze formano la nostra capacità di empatia che sembra essere una capacità innata , tuttavia però, non può essere pienamente sviluppata in tutti; i narcisisti, per esempio, sembrano mancare del tutto di empatia.

    Frasi che un Empatico non direbbe mai

    Se siete ancora confusi sulla distinzione tra empatia e compassione, si potrebbero prendere in considerazione queste quattro frasi che potrebbero sembrare appartenenti alla persona empatica , ma in realtà sono l’esatto contrario di risposte empatiche.
    L’ironia è che l’oratore davvero crede che quello che lui o lei sta dicendo è positivo per l’ascoltatore e stabilire un legame tra di loro; niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

    1. “So esattamente ciò che provi, ci sono passato anch’io“. Certo quest’affermazione di primo acchito ha il sapore della solidarietà, ma in realtà avete spostato il focus su di voi emarginando l’unicità dell’esperienza della persona. Come regola generale, se le prime parole dalla tua bocca iniziano con il pronome “io”, le probabilità di non essere empatici aumentano di gran lunga.

    2. “Potrebbe sempre essere peggio“. Si potrebbe pensare che questo è un modo per vedere le cose da un’altra prospettiva, ma, in realtà, non lo è. Dire a chi sta male che il suo dolore non è poi così grave e non solo una sottovalutazione gratuita ma anche un offesa. Invece di combattere la necessità di riempire l’aria con le parole, basterebbe semplicemente prendere una sedia, mettersi accanto alla persona e ascoltare. Questa è empatia. Ricordatevi che nessuno deve sentirsi grato che quello che è successo è stato solo un uragano di categoria tre, non uno tsunami.

    3. “Cerca di essere positivo. Forse doveva andare così“. Un vero empatico lascia la sua riserva segreta di pensieri e aforismi positivi a casa. Invece di tentare di modificare a tutti i costi le emozioni e i pensieri di quel momento, facendo sentire chi li prova un marziano o un fallito e per di più se non riesce ad essere positivo anche frustrato, possiamo semplicemente fare compagnia al suo dolore, lasciarlo li e aspettare che il processo di smistamento dei nostri sentimenti negativi facciano il loro corso.

    4. “Non pensi che è ora di andare avanti e reagire?” Il cheerleader interno che è in te può pensare che questo consiglio sia utile, ma nel frattempo la distanza emotiva si fa sempre più lunga. Con questa affermazione trasformiamo il dolore in un oggetto usa e getta e che ha una scadenza. A meno che non si ha intenzione di far capire alla persona che sei stanco di questa storia e di lui , forse sarebbe più saggio ed empatico lasciare decidere alla persona in questione quando è il il momento giusto per andare avanti.

    L’empatia non è giudicante.

    In molti hanno affermato e sostenuto su come l’empatia conferisca un vantaggio evolutivo per l’uomo. Dal momento che siamo creature tribali, empatizzare con gli altri aumenta il nostro senso di impegno per la comunità e, inoltre, ci ha permesso una maggiore comprensione non solo dei nostri i sentimenti, ma anche quelli degli altri. Questo è altrettanto vero oggi come lo era millenni fa. L’empatia è una di quelle rare qualità che conferisce doni sia al donatore sia al ricevente.

    FONTE: https://www.psychologytoday.com/blog

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